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È il regista che ha saputo raccontare meglio di altri l’uomo della strada, si è 
fatto portavoce delle esperienze e delle aspirazioni del popolo americano ed ha 
realizzato il primo capolavoro del cinema sonoro: “Alleluja” (Hallelujah) 
(1929).King Vidor nacque nel Texas nel 1896 da una famiglia facoltosa e subito dimostrò 
che il cinema era la sua strada di vita, infatti a 15 anni, dopo aver visto ben 
147 volte “Ben-Hur” del 1907 (così assicurò lui stesso quando faceva il 
proiezionista a Galveston), si fece prestare una macchina da presa e si 
improvvisò come “l’unico del sud-est del Texas” operatore per notiziari 
cinematografici. Si sposò con Florence, un’aspirante attrice e nel 1915 decise 
di viaggiare per gli Stati Uniti per scoprire nuovi luoghi e persone diverse, ma 
anche per vedere dove si svolgeva l’azione ovvero Hollywood.
 Giunto nella mecca della cinematografia il giovane King dovette iniziare un duro 
tirocinio al quale solo la sua tenacia poteva tenerlo saldo. Scrisse infatti 52 
sceneggiature, tutte rifiutate tranne una, la quale fu accettata dalla Vitagraph. 
Una grande occasione gliela propose un giudice, il quale era molto interessato 
ai problemi dei minori, sulla gioventù traviata e voleva realizzare una serie di 
film a due bobine. Tutto questo progetto naufragò a causa del costo elevato e 
Vidor si ritrovò senza lavoro.
 Non perdendosi d’animo, decise di sviluppare un’idea che coltivava da tempo, un 
soggetto sulla Christian Science (Scienza Cristiana) dal titolo “The Turn in the 
Road”. Ad appoggiare questa impresa furono gli stessi teologi, i quali fecero 
anche da comparse e allestirono anche la scenografia. Il film ebbe un grande 
successo e fu così che la carriera di King Vidor iniziò la sua lunga marcia di 
trionfi.
 Dopo qualche tempo arrivò il contratto della Metro-Goldwyn-Mayer e il regista 
realizzò subito nel 1925 “La grande parata” (The Big Parade), nella quale mostrò 
attraverso il personaggio di un malinconico soldato cosa potesse essere la 
guerra e a quali conclusioni poteva portare un’atrocità simile. Vidor in questa 
pellicola ebbe un’idea straordinaria, che mai si era vista prima: creò un 
intreccio in cui l’epica della guerra si fondeva con l’intimità del povero 
soldato mandato allo sbaraglio. Il protagonista John Gilbert da personaggio di 
grande amatore fu ridotto dal regista a un qualsiasi soldato e l’attore recitò 
con grande convinzione questa parte, tanto da essere considerata una delle 
migliori interpretazioni del cinema muto. Così questa pellicola divenne un 
successo che consacrò King Vidor immediatamente tra i grandi registi degli anni 
Venti. Con questo box-office inaspettato in casa Mgm fu subito data la 
possibilità di tornare dietro la macchina da presa e realizzò “La Bohème” (La 
Boheme) nel 1926 con protagonista Lilliam Gish, ammiratissima dal regista, che 
seppe anche lei dar il meglio di sé, portando anche questo film al successo. Nel 
1928 Vidor notò che l’americano qualsiasi aveva una vera e propria ossessione: 
la corsa al successo. Così realizzò “La folla” (The Crowd) nel quale il 
protagonista dapprima corteggia una ragazza, poi la sposa, compra una piccola 
casa, ma la moglie lo spinge ad un lavoro migliore così si licenzia, trova un 
nuovo impiego, ma lo perde e non riesce più a trovarne anche uno piccolo. 
Quest’opera piacque soprattutto per come narrava fluidamente una storia così 
triste e senza via di scampo e, rivista ancor’oggi, non sembra aver perso lo 
smalto di un tempo.
 Nel 1929 arrivò, come detto, il suo primo film sonoro “Alleluja” (Hallelujah) 
nel quale il regista affrontò un tema considerato all’epoca un tabù ovvero la 
questione dei ‘negri’. La storia narra di un raccoglitore di cotone, che dopo un 
assassinio si pente e diventa predicatore. Fu girato come un muto, difficilmente 
si sarebbe potuto trasportare un impianto di sonorizzazione nei campi di cotone 
di Memphis, ma Vidor abilmente tolse quella noiosa staticità che sarebbe stata 
usata nei primi film sonori, cos’ nel 1929 il regista seppe usare questa nuova 
tecnica con molta abilità, meglio di chiunque altro, così risultò arduo inserire 
il filmato fatto in esterni con il registrato in studio e pare che al montatore 
venne un esaurimento nervoso.
 Questo film risultò un grande capolavoro e così lo definì Vidor: “Era il ricordo 
di un’epoca. In seguito, la gente di colore ha fatto progressi enormi, ma questo 
film narra com’erano i negri allora. In esso non vi è nulla che non si riallacci 
alla mia personale esperienza nel Texas….Ancora prima dell’avvento del sonoro 
avevo cercato, a diverse riprese, di convincere la Mgm a realizzare un film che 
parlasse della gente di colore, ma la casa cinematografica l’aveva sempre 
rifiutato. Nel 1928 mi recai in Europa e, seduto in un caffè di Parigi leggendo 
un giornale, appresi che tutti i film sarebbero stati sonori. Mi imbarcai sul 
primo piroscafo perché avevo compreso che era giunto il momento di realizzare “Alleluja”.
 Feci tappa a New York per far visita a Nicholas Schenck, presidente della Loew’s 
Inc. e massimo esponente della Mgm. Si dimostrò scettico, riluttante e gli 
dichiarai allora che avrei realizzato il film gratuitamente, mettendo il mio 
compenso nel budget del film. “D’accordo – disse alla fine Schenck – se è questa 
la via che intendi percorrere, ti lascerò fare il tuo film su quei bastardi…”. 
Questo, capite, era il suo atteggiamento”.
 Nel 1931 un altro capolavoro viene messo in opera da Vidor, “il campione” (The 
Champ), la cui storia narra di un pugile in declino, perfettamente interpretato 
da Wallace Beery, e di suo figlio (Jackie Cooper). Con abilità il regista lasciò 
ogni tipo di artificio per dar spazio ad uno stile scarno, mostrando le tensioni 
della vita appassionando lo spettatore di ogni età.
 Nel 1934, il regista mise in scena un film, di cui raramente se ne parlò 
all’epoca e ancor’oggi non è ancora stato rivalutato, ma che è entrato nella 
storia del cinema: “Nostro pane quotidiano” (Our Daily Bread). Opera nella quale 
si viene a parlare di un uomo che scopre un torrente su di una montagna e 
insegna alla comunità a portare l’acqua ai campi. Per Vidor fu un’impresa 
realizzarlo, per i due motivi sopra elencati e soprattutto perchè non trovava 
denaro per finanziarlo. Raccontò una volta: “Lessi su una rivista un articolo 
che parlava del blocco dei crediti agli agricoltori, di ritorno allo scambio in 
natura, e me ne servii come base per il copione. Le case cinematografiche erano 
trincerate dietro a film ricchi di glamour e le banche precludevano qualsiasi 
tipo di agevolazioni proprio ai contadini proprietari delle fattorie di cui 
parlavo nel film; il mio progetto venne respinto. Ero amico di Chaplin, che mi 
assicurò che se fossi riuscito a trovare i fondi per realizzare il film avrei 
potuto distribuirlo attraverso la United Artits. Offrì in garanzia il denaro 
liquido di cui disponevo e le mie proprietà immobiliari e presi a prestito il 
denaro da un ente specializzato in finanziamenti per il cinema”. Alla fine di 
questa operazione il film, grazie anche ad una regia magistrale e un montaggio 
perfetto andò fortunatamente bene e permise a Vidor di rimanere sulla cresta 
dell’onda ancora per molto tempo.
 “La cittadella” (The Citadel), 1938, fu un ennesimo successo commerciale 
realizzato in Inghilterra, mostrava la storia di un medico alle prese con la 
corruzione di ricchi e poveri. La professione del medico venne descritta con 
molta cura e realismo dal regista che cercò anche di esprimere le sue credenze 
religiose e le sue idee politiche.
 Nel 1944 fu la volta di “L’uomo venuto da lontano” (an American Romance) nel 
quale Vidor mostra un altro dei suoi temi dopo ‘la guerra’, ‘il grano’ questa 
volta fu ‘l’acciaio’. Mise in scena la vita di un uomo che, pur divenendo il 
direttore di un acciaieria, era pronto a farsi umile e ad aiutare i suoi operai. 
Disse: “Desideravo mostrare come un uomo può diventare il capitano di 
un’industria ed essere ancora capace di indossare una tuta e di procedere alla 
riparazione di una macchina quando è guasta”. Alla Mgm non piacque molto e la 
censura ne tagliò alcune scene che a detta dello stesso regista danneggiarono 
fortemente il contenuto.
 “Duello al sole” (Duel in the Sun) del 1946 fu un grande western epico e 
romantico con degli eccessi anche erotici per l’epoca, il film ebbe delle 
difficoltà in quando Vidor si scontrò più volte con il mega-produttore David 
O.Selznick, che a sua volta ingaggio il regista William Dietrle per rifare 
alcune scene, ma tuttavia il film non cambiò l’aspetto vidoriano che il regista 
aveva dato sin dall’inizio.
 Intanto Vidor maturò l’idea di riproporre le tematiche realizzate in “L’uomo 
venuto da lontano” e fece così il film “La fonte meravigliosa” (The Fountainhead), 
1949 tratto dal romanzo di Ayn Rand, in cui si narra la vita di un architetto 
idealista, perfettamente interpretato da Gary Cooper, che si scontra con il 
mondo degli affari. Disse a proposito il regista: “Quando realizzai il film 
ritenevo che il gesto dell’eroe, che fa saltare in aria un edificio perché 
costruito in modo diverso da come lo aveva progettato, fosse esagerato. Oggi non 
ne sono più tanto sicuro. Il fatto è che oggi posso rivedere alcuni miei vecchi 
film e se contengono un compromesso me ne rendo conto. Ciò appare evidente come 
una cicatrice, di qualunque cosa si tratti: compromessi nel cast, nel soggetto, 
nel budget…erano i tempi in cui non potevo fare quello che invece sapevo che 
andava fatto”. Questo film insieme con lo splendido “Passaggio a Nord-Ovest” ('Northwest 
Passage' (Book I -- Rogers' Rangers) (1940) con protagonista un eccellente 
Spencer Tracy che deve condurre un gruppo di rangers a distruggere un villaggio 
di indiani, lottando prima con le impervietà e la natura ostile dei luoghi. 
Vennero considerati “film fascisti” perché mostravano con forza il credo 
individualista, ma è invece soltanto l’abilità del regista nel mostrare la 
concretezza dell’essere umano.
 La sua carriera si concludeva con due kolossal “Guerra e pace” (War and Peace) 
del 1956 e “Salomone e la regina di Saba” del 1959. Si ritirò nel suo ranch a 
Paso Robles in California, pensò a lungo ad un altro possibile film: “narra di 
un uomo, un regista cinematografico che raggiunge la notorietà a Hollywood, ma 
non desidera continuare a realizzare film che non esprimano le sue idee e i suoi 
sentimenti. Sentendosi responsabile nei confronti del suo pubblico, smette di 
lavorare e ritorna nella sua cittadina natale. La maggior parte del film ruota 
intorno alla ricerca dell’anima, dell’integrità. Girerò gran parte del film nel 
mio ranch, perché le fattorie e i ranch sono sempre stati le mie ambientazioni 
preferite. Sono stato spesso burlato per aver fatto figurare un aratro in ogni 
film che realizzavo; in realtà credo che un aratro che smuove la terra 
rappresenti un nuovo ciclo di vita, una nuova generazione che continua…Per me un 
aratro ha molti significati e forse questo è il motivo che mi ha spinto a vivere 
in un ranch”. Questa idea di realizzare una nuova opera non avvenne mai e il 
progetto fu incompiuto a causa della morte del regista. King Vidor seppe vedere 
bene come la vita sia un ciclo senza sosta il cui protagonista è l’uomo capace 
di lottare contro ogni avversità e lui stesso ne dimostrò questa abilità perché 
in cinquant’anni riuscì a lottare con il feroce sistema hollywoodiano 
realizzando capolavori con grandi attori e attrici, senza scendere mai a 
compromessi, fu da un certo punto di vista un vero e proprio funambolo capace di 
mantenersi in equilibrio tra le sue idee e le leggi di produzione con coraggio e 
impegno senza precedenti.
 
 
 G.R.
 
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